“Rosario va in pensione” è l’ultimo lavoro editoriale, un intenso testo teatrale ispirato alla tragica vicenda umana e professionale del magistrato siciliano Rosario Livatino
Biografia
Gianni Caria, nato a Sassari nel 1960, magistrato, è attualmente Sostituto Procuratore a Sassari. Oltre alla sua carriera nella magistratura, si dedica alla scrittura. Per la casa editrice Il Maestrale ha pubblicato il romanzo Sabbie (2023) e l’attuale testo teatrale “Rosario va in pensione”, ispirato alla tragica vicenda umana e professionale del magistrato siciliano Rosario Livatino. Con la sua produzione letteraria, Caria esplora i confini tra giustizia, etica e memoria, dando voce a temi profondi attraverso una scrittura intensa e riflessiva.
La tua carriera come Sostituto Procuratore e il tuo percorso da scrittore si configurano come due strade parallele o una delle due anime, quella giuridica e quella umanistica, prevale sull’altra? E in che modo si influenzano reciprocamente?
<<Parallele non direi, ma ci sono sicuramente dei punti di contatto. Fare il magistrato mi ha reso più analitico e curioso nei confronti delle vicende dell’animo umano. Ho sempre fatto il pubblico ministero, quindi il magistrato penale e facendo questo lavoro, ci si deve chiedere sempre che cosa c’è dietro le vicende. Questo tipo di approccio, credo mi ha aiutato e continui ad aiutarmi anche nella scrittura>>.
Cosa ti ha spinto a scrivere il tuo ultimo libro, un testo teatrale, “Rosario va in pensione”, ispirato alla drammatica vicenda umana e professionale del magistrato siciliano Rosario Livatino?
<<La vicenda di Rosario Livatino è intrecciata profondamente con la mia esperienza personale. Il mio primo incarico come magistrato è proprio quello di Sostituto Procuratore presso il tribunale di Agrigento, lo stesso ruolo che Livatino aveva ricoperto prima di me. Quando sono arrivato, nel marzo del 1990, lui era appena diventato giudice presso quello stesso tribunale. In quei sei mesi ho avuto modo di conoscerlo, di lavorare con lui, di apprezzarne le qualità umane e professionali. Purtroppo, il 21 settembre di quell’anno, Rosario Livatino fu assassinato. Ero lì. L’ho visto sul tavolo settorio, ho portato la sua bara sulla spalla, ho fatto il picchetto d’onore insieme ad altri colleghi. È una tragedia che mi ha colpito nel profondo. In tutti questi anni ho continuato a pensare alla sua figura. Su di lui hanno fatto un film nel 1994, Il giudice ragazzino. Ha suscitato un interesse particolare anche nel mondo cattolico, tanto che l’hanno proclamato beato di recente>>.
Rosario va in pensione.
<<Lo scorso anno ho sentito il bisogno di raccontarlo in prima persona, scrivendo un monologo. Da lì è nato il desiderio di andare oltre, di trasformarlo in un testo teatrale. Rosario va in pensione, il mio libro, è stato pubblicato il 21 maggio scorso dalla mia casa editrice, Il Maestrale. È un progetto che nasce da lontano, da un’esperienza vissuta in prima persona. La figura di Rosario mi accompagna da più di trent’anni: è rimasta viva dentro di me, e con questo testo ho voluto darle voce».
Come nasce, nel tuo atto unico, l’esigenza di immaginare un esito positivo per la vita del tuo collega, come se fosse scampato all’attentato e avesse potuto raggiungere serenamente la pensione?
<<È una scelta narrativa data da un pensiero ricorrente, semplice ma profondamente umano, che si affaccia ogni volta che qualcuno muore in modo tragico, com’è accaduto a Rosario. Un pensiero che riguarda non solo i magistrati come lui, ma anche figure come Falcone, Borsellino, uomini e donne delle forze dell’ordine, o qualsiasi persona strappata alla vita da un evento drammatico. Nessuno di loro voleva morire, volevano vivere, continuare il proprio lavoro, le proprie passioni, il proprio cammino. Ed è proprio da qui che la mia riflessione ha preso una direzione, trasformandosi in un testo teatrale: che uomo sarebbe diventato Rosario Livatino se fosse sopravvissuto a quell’agguato? Sarebbe rimasto lo stesso uomo che al giorno d’oggi ricordiamo con rispetto e commozione? Oppure Sarebbe stato ricordato come un ottimo magistrato, una brava persona, con una vita normale? Queste domande mi hanno spinto a immaginare e a scrivere: Rosario va in pensione».
Tra i temi che affronti ci sono l’eroismo, il coraggio e, soprattutto, l’ingiustizia di non aver potuto conoscere l’amore. Secondo te, Livatino non ha vissuto l’amore proprio a causa di un atto di coraggio?
<<Livatino è morto a soli 38 anni e questo ha certamente limitato il suo percorso umano e personale. Tuttavia, l’ingiustizia più profonda, a mio avviso, non sta tanto nel fatto che non sia arrivato a 70, 80 o 90 anni, quanto piuttosto nella privazione delle esperienze più emozionanti e significative che una persona può vivere. Ho immaginato che questa sia la sua perdita più grande: non aver avuto modo di conoscere pienamente l’amore, la gioia e le passioni quotidiane. Quando una persona muore, ci si interroga spesso sul coraggio. Nel caso di Livatino, il coraggio è vivere ogni giorno facendo il proprio dovere fino in fondo, con coerenza e determinazione, nonostante le minacce e le pressioni dell’ambiente in cui operava. Un coraggio silenzioso, senza proclami, guidato dalla convinzione che il dovere vada compiuto sempre, comunque, fino all’ultimo. E forse proprio questa sua radicale dedizione al dovere ha comportato, come conseguenza inevitabile, la rinuncia a molte delle emozioni più intime e personali della vita>>.

